La distorsione (prima parte)

di orso tosco

Dunque i buoni propositi erano disposti sul tavolo, sul pavimento, lungo la scalinata fredda e spoglia. Li presi uno ad uno e vi sputai sopra con altissima precisione.
Bisognava essere degli stolti per non capire come l’errore fosse l’unica tecnica accettabile per i tempi in cui vivevamo, in cui viviamo.
Allora io mi offrii all’errore con la stessa dolcezza con cui un condannato stanco porge il collo alla lama del boia.
La distorsione iniziò a Novembre.
Il primo a parlarmene fu un orologiaio ebreo. Ma erano le nove di sera, e io alle nove di sera bevo, tutt’al più mi agito e faccio rumore, di certo non presto attenzione.
Dovetti aspettare altre due settimane prima che la distorsione si facesse viva.
Avevo finito un trasloco laborioso e mal pagato, mi accingevo a maledire i proprietari di casa e la persona che mi aveva ingaggiato quando, il tempo di accendere una sigaretta, mi ritrovai davanti un ragioniere sventrato.
Che fosse un ragioniere non lo intuii da solo, me lo disse lui, tenendosi le budella con una mano.
“Sono il ragioniere Blok e da molti anni intrattengo una relazione con vostra moglie.”
“Lei è ferito a morte,” risposi “e io non sono sposato.”
Essendomi spaccato la schiena per pochi spicci, e trovandomi davanti un uomo sventrato, conclusi che per un mercoledì pomeriggio poteva bastare. Volevo andare a dormire.
“Le chiamo un’ambulanza.” Aggiunsi per pura cortesia.
Dietro di me avvertii il calore di una folla. Mi voltai. C’era una scolaresca. Un maestra.
Erano anch’essi sventrati e si reggevano le budella con una mano mentre con l’altra scattavano fotografie. La scala era piena di sangue, esattamente come il corridoio.
“Rimuovere non l’aiuterà,” mi disse la maestra venendomi incontro “lei ha un problema, ed è venuto il momento di risolverlo.”
Scoprii di non provare piacere ad essere preso sotto braccio da una maestra sventrata.
Si invecchia anche per questo. Per conoscersi meglio.
“Li vede quei bei ragazzini, la ammirano molto, sa? Lei, con il suo approccio alla musica classica così poco convenzionale, è riuscito ad avvicinare le nuove generazioni a sonorità che tutti gli esperti del settore davano per spacciate. Ma il talento è anche responsabilità caro mio. Quando si rappresenta qualcosa di importante per i giovani, non si può buttare tutto alle ortiche per scaramucce sentimentali. Ora, ammettiamolo, per il ragioniere Blok non è stato facile venire a confidarle il proprio crimine. È un uomo metodico il ragioniere, e avrebbe potuto tranquillamente continuare a vedere sua moglie senza paura di essere scoperto. Visto che, lo sanno tutti, voi compositori siete sempre con la testa tra le nuvole e non è così difficile farvela sotto il naso. Però il ragioniere si sente in colpa. Sa benissimo il grande aiuto che lei ha offerto al mondo della musica classica e, come tanti altri, le è riconoscente. Non riesce a sopportare l’idea di unirsi in rapporti carnali con sua moglie mentre lei porta avanti una tenace e ammirevole battaglia culturale. È un uomo con dei principi il Blok. Non ha caso fa il ragioniere, è calvo, e se lasciato libero di scegliere predilige frutta e verdura di stagione.”
Capirete come nella casa vi fosse un odore schifoso, con tutta quella gente sventrata. Un odore simile lo si potrebbe riprodurre soltanto interrompendo di colpo tutte le attività produttive di un enorme macello e abbandonando i lavori a metà. Con le mucche mezze morte, impaurite lasciate a se stesse, sul pavimento, sui carrelli trasportatori, nelle gabbie. Ecco l’odore in quella casa era simile ad un macello abbandonato per due ore nel mezzo di una normale giornata di lavoro.
“Senta, io posso chiamarle un ambulanza, ma voi siete talmente tanti che non so se riusciranno a caricarvi. E non ho nessun problema con il signor Blok, visto che non sono sposato, e né lui né i vostri studenti debbono provare la benché minima riconoscenza o ammirazione nei miei confronti, dato che non ho nulla a che spartire con la musica classica.”
A quel punto i ragazzini, sempre con le budella in mano, iniziarono a gridare in coro:
“Nemmeno il geniale Maestro si prende le proprie responsabilità, destino amaro, tutto è perduto!”

E il ragioniere Blok? Non mi si butta in terra, perdendo un certo quantitativo di organi, con le lacrime agli occhi? “La prego non tolga la speranza a questi ragazzi. Non faccia loro pagare una colpa che è soltanto mia. L’arte di cui lei è capace non merita di essere ostacolata da squallide storie di corna.”
Me ne andai al piano di sotto facendomi strada tra i giovani sventrati. Non potevo fare molto per loro. Sarebbero servite molte, troppe ambulanze. Era una battaglia persa.
Ritrovai la famiglia per cui avevo eseguito il trasloco. Parevano preoccupati.
“Ah!” disse il marito, sbiancando.
“Mah!” aggiunse la moglie “allora si sente meglio. Ci ha fatto prendere una paura, non ha idea. Pensavamo fosse morto.”
Io mi presto a lavori degradanti, essendo poco portato per la delinquenza e la prostituzione, ma tendenzialmente non rispondo alle assurdità di nessuna persona di mezza età con la maglietta del Piccolo Principe. Però quel mercoledì cominciava ad apparirmi pericoloso, preferii stare al gioco.
“Fatta eccezione per il vostro salario da miseria non sono mai stato meglio. E, per puro spirito di fratellanza, anche se non rientra nei miei compiti di traslocatore, vi faccio presente che al piano di sopra in questo istante ci sono una ventina di persone vittime di una strana forma di delirio e che per di più vagano con le budella in mano. Non mi stupirei se uno di essi risultasse essere il vostro ragioniere. Arrivederci.”
Chiusi gli occhi più a lungo del normale per far capire ai miei interlocutori che ritenevo la nostra conversazione conclusa.
Ma quando li riaprii mi ritrovai sdraiato in terra, con le gambe sollevate per aria ed un uomo evidentemente composto in buona parte di dopobarba che mi schiaffeggiava senza scrupoli.
Reagii. Sferrai un destro al volto dell’uomo che mi stava schiaffeggiando, mirando al baffo corto e spesso. Il braccio fece cilecca, come nei sogni più impotenti, e tutto si concluse in una sorta di spintarella delicata al mento dell’aggressore sconosciuto.
“Si è ripreso” esclamò qualcuno.
“Come ti senti?” mi chiese la signora di mezza età.
“Sufficientemente umiliato.” risposi.
Volli a tutti i costi rialzarmi da terra. Il tipo con i baffi tentò di impedirmelo dicendo che per il mio bene era meglio che rimanessi in terra. Mi divincolai, cercando un arma utilizzabile nei paraggi. Non trovai nulla.
Quando si è impossibilitati a ferire, generalmente si esigono spiegazioni.
Dissero in coro che ero stato vittima di una crisi violentissima, due crisi a dir la verità. Tra una crisi e l’altra avrei vaneggiato riguardo ad una ventina di persone sventrate ed un ragioniere. Provai a spiegare loro che non si trattava di vaneggiamenti, e che realmente mi ero imbattuto in un gruppo di persone sventrate.
Ma, notando la solita signora di mezza età sibilare un preoccupante “ecco un’altra crisi” e temendo che l’uomo baffuto riprendesse a schiaffeggiarmi, mi zittii. Feci finta di nulla. Anzi, ringrazia perfino, ignorando il gusto schifoso che questi ringraziamenti fasulli mi lasciavano in bocca, sulla lingua. Loro dissero che forse era il caso di chiamare un ambulanza.
“Un ambulanza? Ma scherziamo? Con tutti i bambini bisognosi di pronto intervento? E le malattie di cui si è sbagliata la diagnosi a causa dei tagli al sistema sanitario nazionale?”
Me ne andai.
La strada che mi condusse a casa era la strada di tutte le strade di tutte le periferie.
Larga, spoglia, inospitale, incurante. Lungo le linee interne dei marciapiedi confezioni vuote e lattine si alternavano a sacchetti di plastica di piccole dimensioni umidi di pioggia, mozziconi di sigaretta, croste di pane.
L’anonimato potente dell’universo dei poveri è portatore di una melodia stanca che sfianca chi vi partecipa. È un trucco, evidentemente. Un buon modo per farci tornare a casa con una dose di bisogno sufficiente ad impedirci di osservare la nostra bruttezza, lo squallore ingiusto del mobilio, le urla perenni del vicinato, la mancanza di equilibrio.
In ogni modo, volevo dormire.
Le cose, però, sarebbero andate diversamente.
Rientrato nel mio appartamento di fortuna sentii un suono provenire dalla cucina. Mi affrettai a controllare chi diavolo stesse spadellando a mia insaputa. Trovai una donna sconosciuta che, senza voltarsi disse distrattamente.
“Ah, già qui?”
Pur sapendo di non aver avuto relazioni sentimentali stabili negli ultimi anni, in qualche modo ero consapevole del fatto che quella donna fosse mia moglie.
Era impossibile e vero. Mi girava la testa. Avevo bisogno di stendermi.
Cosa fa un marito tornato a casa se trova la propria consorte in vestaglia, con un neo vicino al labbro che meriterebbe una visita da un dermatologo e uno sguardo depresso?
Sbuffa, pensai.
Sbuffai.
Funzionò.
Mi ritrovai sdraiato sul divano.
L’odore della mancanza di senso: calze molli e pioggia, le ultime reistenze di un deodorante scadente, l’alito invisibile dei soffitti troppo bassi.
Dopo un trasloco mal pagato, dopo una ventina di persone sventrate che mi consideravano il salvatore della musica classica contemporanea e un cornuto, dopo aver scoperto di essere sposato con una donna poco attraente, dopo una serie di cose del genere cosa mai potevo fare?
Aprii un libro di considerevoli dimensioni a metà e me lo appoggia sul viso. La carta era dura e fredda come una perquisizione alla frontiera di una nazione che non ti vuole.
Da tempo avevo smesso con tutte le droghe, speranza e paranoia comprese.
Chi potevo incolpare, dunque?
Come ci si può ritrovare cornuti, compositori di musica classica e sposati nel giro di un trasloco?
Mi alzai di scatto e uscii dall’appartamento.
Presi un bus, poi un altro bus, mi fermai a comprare una bottiglia di vino e bussai alla porta dell’orologiaio ebreo. Mi aprì lui in persona.
“Cosa vuoi?” domandò con estrema cortesia.
“Ti ricordi di quando mia hai parlato della distorsione?”
“Si.”
“Parlamene ancora.”
“Non mi hai preso abbastanza per il culo davanti a tutti l’altra sera?”
“Senti Rob…”
“Fottiti.”
“Vuoi che mi fotta qui in salotto?”
“No, fuori di qui, con quella vacca di tua madre.”
“C’è del risentimento nella tua ironia Rob, che succede?”
“Ho provato a spiegartelo l’altra sera. Mi son detto, se non a queste cose, a che servono gli amici?”
“Il momento del bisogno.”
“Inculatelo il momento del bisogno.”
“Mi è successa la stessa cosa Rob.”
“Di che cazzo stai parlando?”
“Della distorsione.”
“Senti, è un momento critico ok? Non so cosa mi sta succedendo ma è qualcosa di poco piacevole e che mi sta sfasciando la testa, e l’ultima cosa di cui ho bisogno è uno stronzetto come te che viene a casa mia per schiaffeggiarmi col cazzo.”
“Ho portato una bottiglia di vino.”
“Fammi vedere.”
Robert prese la bottiglia e la esaminò con aria schifata.
“La merda in offerta speciale.”

Gliela strappai di mano fingendomi offeso.
“La merda? E tu pensi che ci siano argentini che si mettono a trasportare vino di merda fino a qui, con tutti quei deserti in mezzo e il tempo che passano a grigliare bistecche? Sei un illuso se lo credi davvero. Ma che merda e merda. È un gran vino questo. Comunque se non vuoi…”
Giocai sporco, sfruttando il campanello d’allarme che fa scattare sull’attenti gli ubriaconi: il pericolo della bocca asciutta.
“Apri sta merda di vino e raccontami cosa ti è successo.” sbottò l’orologiaio.
Raccontai.
Le storie sono come colline di sabbia. Ci puoi costruire sopra quel che ti pare e avere persino l’impressione che tutto vada bene ma poi, quando ti volti a pisciare, quelle crollano e si trascinano via l’intera baracca insieme a tutti i tuoi buoni o cattivi propositi. Ad esempio Rob, a metà della mia storia, mi interruppe dicendo che non solo io ero sposato, ma lui era persino venuto al mio matrimonio, e aggiunse che era stata una festa del cazzo, genere matrimoni da poveri, con una interminabile serie di tartine al tonno e vino frizzante e che il giorno dopo metà dei partecipanti si era ritrovata con la prostata in gola.
“Io non sono sposato.” dissi con una freddezza tale che l’orologiaio smise immediatamente di parlare. Ci fu quindi un silenzio teso, elastico, sottolineato dai nostri respiri sporcati da migliaia di sigarette.
“Nemmeno tu ti stupisci di come cazzo parlo…” Disse Rob.
“Cosa intendi dire?”
“Fottitelo in culo cosa intendo dire. Tu pensi che io abbia davvero parlato sempre così?”
“Così come Rob?”
“Con tutta questa cazzo di volgarità! Non riesco a dire una troia di parola senza metterci cazzo di mezzo. L’altro giorno a tavola mi sono girato verso mia figlia e lo ho detto passami il fottutissimo sale. E lei cosa ha fatto?”
“Ti ha passato il sale.”
“Esatto cazzo. Senza dire una merda di niente. Nemmeno mia moglie. Come se fosse normale. E io allora, si lo ammetto, io allora mi sono messo a piangere come un coglione. Perché non ho mai parlato così in vita mia, mai, porca di una troia ingenerosa!”
Provai a spiegare a Rob che io l’avevo sempre sentito parlare in quella maniera.
Lui rispose che tutti sapevano che io avevo una moglie.
Tutto vero tutto sbagliato.
“Prima di renderti conto di aver cambiato modo di esprimerti è successo qualcosa di strano?”
Rob restò a sorseggiare il vino argentino con un’aria pensierosa, come se stesse valutando varie ipotesi e nessuna di esse apparisse granché spendibile. Poi chiuse gli occhi, le palpebre come due saracinesche foderate di ciccia, e disse:
“Ho partecipato alla presa della Bastiglia.”
Gli strappai immediatamente la bottiglia di mano e dissi che non ero passato a farmi prendere per il culo. Feci per andarmene, ma Rob mi supplicò.
“Senti, ci conosciamo da vent’anni, giusto? Tu davvero pensi che io prima di questa troiata della distorsione sapessi che cazzo è la Bastiglia? Appena mi sono ritrovato in compagnia di questi esaltati del cazzo io gliel’ho pure detto che per me la Bastiglia era una strada di Barcellona. Te la ricordi no? Quella lunga piena di palme?”
“Quella è la rambla.”
“Appunto. Io invece ho partecipato alla inculatissima presa della Bastiglia.”
“A Parigi?”
“A Parigi.”
“E quando ci saresti andato a Parigi? Come?”
“Come non lo so. So che ero andato dal barbiere e che dopo aver pagato mi restava un’ora senza un cazzo dare. Allora mi sono detto, sai che c’è? Me ne vado a troie.”
“L’atmosfera natalizia.”

“Alla fine ero già a Soho, e nei dintorni c’è una che per un dieci pound te lo prende in bocca e ci fa i gargarismi.”
“Vai avanti.”
“Allora entro nel portone di questa. Ci siamo? Busso. La porta si apre e chi mi ritrovo davanti? Louise Boccadifica? No. Una specie di pagliaccio vestito come il nano svizzero.”
“Chi è il nano svizzero?”
“Quello sempre con la mano sotto l’ascella.”
“Napoleone?”
“Bravo.”
“Non è svizzero.”
“Fottitelo Napoleone. Sempre una formaggiaro era. Comunque mi ritrovo un tizio vestito così.
Io ho pensato, si vede che Louise si stecca la casa con un marchettaro. Allora glielo dico subito, prima che questo si metta a sfrociarmi, “Io son qua per la bionda”, gli faccio. E questo che fa?
Mi tira dentro e mi molla un calcio nel culo. Sto per girarmi a prenderlo per le palle quando mi rendo conto di non essere a casa di Louise ma in una piazza. C’è una gran puzza nell’aria, come una volta alla stadio dopo le cariche della polizia. Un gruppo di stronzi vestiti pari pari a quello che mi ha dato il calcio inizia a dirmi che sono in ritardo. Io, capirai, mi sentivo come il coglione di un vecchio, mollo e inutile. E questi sbraitano puttanate tipo, la rivoluzione non aspetta, vile, codardo, muoviti. E io glielo chiedo, ma muoviti a fare cosa? Il più mingherlino del gruppo mi prende la faccia tra le mani e me la sposta verso questo casermone del cazzo e mi dice una roba tipo, oggi facciamo la storia, oggi prendiamo la Bastiglia. Io a quel punto gliel’ho detto, sulla Bastiglia ci son già stato con degli amici quando siamo andati a vedere Barcellona Tothenam, che poi nemmeno abbiamo trovato i biglietti. Adesso invece tu mi dici che quella strada là si chiama la Rambla. Stessa merda. Tanto il tipo mica mi ascoltava, macché, come a voler aprire una latta di fagioli con i peli del culo. Mi son ritrovato armato. E in pratica mi hanno costretto ad assaltare sto cazzo di posto che per poco non ci lascio le penne. Proprio mentre sto combattendo, ad un punto mi giro e chi ti trovo?
La battona.
Mi guarda e mi dice, hai voglia di stare sulla porta a guardare dallo spioncino o ti va di entrare? E allora mi rendo conto di non essermi mai mosso. Mi segui?”
“E come te lo spieghi?”
“Come una pioggia di cazzi quando fuori c’è il sole. Non me lo spiego, merda, questo è il punto.
Tu i tuoi pagliacci sventrati come te li spieghi? E tua moglie?”
“Ma tu hai sempre parlato così Rob.”
“E io sono stato al tuo matrimonio, stronzo.”
Lo so perfino io, i punti morti morti sono come lunghi sbadigli che non risolvono la stanchezza ma semplicemente la sottolineano.
Restammo a bere in silenzio, poi Rob mi disse che non eravamo i soli. C’era altra gente con problemi simili ai nostri, e che ci sarebbe stata una riunione, l’indomani. Se volevo potevo andarci. Mi diede l’indirizzo.
Rientrai a casa dove trovai mia moglie intenta a tagliarsi le unghie.
Si lamentava di certe mie mancanze caratteriali, a suo avviso gravi, e al tempo stesso proponeva alcune località come meta delle nostre future vacanze e, quando mi udì aprire una birra, ipotizzò la nostra partecipazione ad una dieta innovativa basata sul sedano rapa e il divieto assoluto per tutto ciò che riguarda gli alcolici. Io non risposi niente. Apparentemente lei era abituata al mio silenzio visto che non ne sembrava infastidita. È piuttosto strano ritrovarsi sposato senza essersi mai sposati, e con una completa sconosciuta per di più. Ma non è nulla a confronto con la sensazione di stanchezza e sconforto da marito annoiato che improvvisamente mi strinse lo stomaco come se un polpo aggressivo avesse scambiato la mia cassa toracica per un acquario da sfasciare.
Come si può al tempo stesso essere certi di non conoscere la propria moglie e patirla come si trattasse di una figura sgradevolmente familiare?
Non si può. O per lo meno non si dovrebbe. Eppure era esattamente ciò che mi stava capitando.
“Ti ricordi la prima volta che ci siamo incontrati?” le domandai.
“Che birra stai bevendo?”
“Cosa c’entra la birra che sto bevendo?”
“Starai mica bevendo di nuovo quella birra belga?”
“Ma cosa c’entra la birra belga con la prima volta che ci siamo incontrati?”
“Lo sapevo. Eppure mi avevi promesso che non l’avresti bevuta più. E io scema che ancora mi fido.
Dovrei saperlo ormai che sei un bugiardo. Cosa ti costa bere le altre birre, quelle meno forti? Dimmelo, cosa ti costa? Troppo eh? È tutto troppo per il Maestro! Me lo dici che cosa ti ho fatto? Mi vuoi far impazzire? No, dimmelo se mi vuoi far impazzire, così ti evito la fatica e mi butto direttamente dalla finestra.”
“Non è una birra belga.”
Troppo tardi. La mia presunta moglie stava già piangendo. Aveva le mani strette a pugno e si picchiava lentamente le ginocchia. Sembrava la variante di qualche massaggio orientale, una tecnica vietnamita per facilitare la circolazione nelle gambe di una malata di vene varicose.
Non lo era.
Si stava semplicemente preparando all’attacco.
Improvvisamente, con l’abilità che contraddistingue i violenti abituali, iniziò a lanciarmi contro oggetti di tutti i tipi. Qualsiasi cosa trovasse a portata di mano. Purtroppo devo ammettere che aveva una mira invidiabile. Le corsi incontro e le afferrai i polsi. Lei mi diede un morso e prese a schiaffeggiarmi.
Lo sapevo sin dall’inizio che si sarebbe trattato di un mercoledì pericoloso e avevo ragione.
Non essendo un violento, anzi, essendo un codardo, feci quello che i codardi fanno per farsi perdonare. La baciai. E le dissi, lo sai che ti amo.
L’effetto non fu esattamente quello sperato.
Mi presi una violenta ginocchiata nelle palle che mi costrinse ad esaminare da molto vicino lo stato, pessimo, della moquette del mio appartamento.
“Diglielo ad una delle tue troie che la ami bastardo!” urlò mia moglie, di cui continuavo ad ignorare il nome.
E come si fa a supplicare qualcuno senza fare leva sul suo nome proprio?
Si piange.
Piansi.
Piangevamo entrambi. Io per proteggermi, lei perché credeva di non potermi ferire.
Il suono era lo stesso.
Ci abbracciammo con una disperazione ed un abbandono che possono scaturire soltanto da una condivisione prolungata di infime bassezze e bisogni umilianti, insomma, sembravamo davvero una coppia.
La violenza domestica si trasformò in un amplesso maldestro. Mi sembrava la parodia del momento di passione di una soap opera. Con la mia presunta moglie che tentava di immobilizzarmi la faccia davanti alla propria, immagino volendo significare qualcosa tipo guardami negli occhi, oppure guardiamoci negli occhi, e io che glielo impedivo infilandomi, incastrandomi tra il suo collo ed il cuscino, esattamente per ottenere il contrario, per non guardarla. E la abbracciavo, con tutta la mia forza, per fare in modo che non le riuscisse di ribaltare la situazione.
Ci meritammo una dose di sonno.
Al risveglio feci in modo di non farmi sentire e mi buttai per strada.
Vagai per la città interamente concentrato sulla densità del delirio in cui mi trovavo.
Ricordavo perfettamente gli ultimi anni della mia vita, almeno gli ultimi dieci, e pur non andandone fiero potevo tranquillamente affermare che per lo meno non mi ero sposato.
Avevo commesso crimini di tutti i generi, quasi sempre per codardia e viltà, ma il matrimonio no, in quel campo ero incensurato.
Passando davanti ad un internet point mi venne in mente di controllare una cosa.
Quasi tutto le postazioni erano occupate da ragazzini incappucciati con facce inespressive che dialogavano a distanza con bielorusse in mutandine e magliette striminzite.

I ragazzini avrebbero voluto ottenere la nudità integrale, le ragazzine un riscontro economico, la distanza rendeva entrambe le parti al tempo stesso sospettose e poco credibili.
Internet avrà i suoi vantaggi, ma per quanto riguarda i bordelli credo che funzionassero meglio quelli vecchio stile.
In ogni modo mi ritrovai a digitare il mio nome e cognome su google.
Le mie paure e le mie paranoie, come sempre, si dimostrarono più fondate delle mie speranze.
Trovai articoli, recensioni, persino un sito a me dedicato, foto di tour mondiali, pagine di gossip.
Il mio supporto alla musica classica era tra i più preziosi, scriveva il The Guardian, e le critiche rivoltemi dalla vecchia guardia non facevano altro che sottolineare la necessaria, chiara e salutare radicalità della mia manovra d’azione.
Dunque non soltanto mi ritrovavo sposato con una perfetta sconosciuta ma ero per davvero un direttore d’orchestra, nonché un compositore.
Pur sapendo che si trattava di una immensa ed inspiegabile bugia non riuscii a resistere al desiderio di pormi una immediata, miserevole domanda: ma perché allora continuavo a vivere nel mio merdosissimo alloggio popolare?
Sempre su internet trovai la risposta.
Questo fantomatico me stesso sottolineava “l’importanza di non lasciarsi cambiare dal successo. La necessità di mantenere un contatto con il mondo reale e le sue vere dinamiche, senza rinchiudersi in una gabbia dorata fatta di belle case e amicizie prestigiose. Ed è per questo motivo che la maggior parte dei miei compensi, derivati dalla mia attività concertistica e dalle royalties dei miei dischi viene devoluta ad associazioni che si occupano di aiutare i ragazzi più sfortunati.”
Corsi fuori e mi fiondai ad un bancomat.
Era tutto maledettamente vero. Mi sarei sputato in faccia da solo. Sul mio conto c’erano settantadue pound. Meno di quanto possedevo nella mia abituale esistenza da traslocatore sottopagato.
Era comunque abbastanza per ubriacarmi nel primo pub a portata di mano.
Mi applicai con una certa metodicità.
Durante le ore passate in compagnia di bibite gassate e bicchieri di tutte le forme cercai di non pensare a nulla, guardai la televisione, mi mangiai le unghie, lessi dei menù.
Quando mi ritrovai costretto a faticare per bere l’ennesima birra capii che era arrivato il momento di recarmi al raduno di cui mi aveva parlato l’orologiaio ebreo.
Poche cose sono belle quanto sedersi al caldo in un bus da ubriachi, elemosinare lo sguardo schifato delle persone per bene, schivare il tentativo dei disperati. Sono cose che fanno sentirci meno colpevoli. Purtroppo poi l’arrivo ci spinge ad uscire dal bus in questione, a camminare, con le mani in tasca, il camminare ci costringe a seguire lo spartito del ghiaccio sulla ghiaia, la musica balorda e seria del freddo ci fa andare dritti pur ondeggiando, l’andare dritti ci fa arrivare senza che nessuno mai ci abbia proposto un ballo.
Arrivai.
Si trattava di un minuscolo pub su un canale del nord di Londra. Fuori dal pub c’era soltanto una cane grasso con le zampe corte e gli occhi coperti da uno spesso ciuffo di pelo. Era seduto sopra una panca di legno e odorava i resti di un panino.
Il pub era caldo e sporco, e a causa della legge che proibisce il fumo nei locali pubblici odorava di birra rancida. L’uomo dietro al bancone avrà avuto sessant’anni e disponeva di un naso enorme e rossastro, non da clown però, sembrava piuttosto un tubero, una patata dolce.
“Rob mi ha detto che dovrebbe esserci una riunione.” dissi dopo aver intuito che l’uomo non aveva nessuna intenzione di salutarmi.
“Ti sembra un posto da riunioni?”
“Rob lo conosci?”
“L’ebreo?”
“L’orologiaio.”
“Dovrebbe arrivare. Nell’altra stanza ci sono i suoi amichetti. Però questa non è un ospizio per disoccupati. Devi consumare.”
“Che birre hai?”
“Cosa te ne fotte del nome di una cosa che poi finirai col pisciare?”
Il nasone mi passò una birra, ma prima di mollare il bicchiere mi guardò con una certa attenzione.
“Sarai mica quel coglione che parla sempre di musica classica?”
“E mia moglie si chiava un ragioniere pelato.”
“Questo non lo sapevo, ma nemmeno mi stupisce più di tanto.”
La sala della riunione era in realtà l’anticamera del cesso del bar, uno spazio stretto, odoroso, provvisto di qualche sedia e un divanetto che molto probabilmente la notte funge da cuccia per il cane grasso che avevo visto all’entrata del pub. Mi presentai come amico di Rob. La reazione non fu esattamente una reazione. I tre uomini presenti annuirono e si rimisero a parlare tra loro.
Rob arrivò dopo qualche minuto tutto trafelato. Si scusò per il ritardo e buttò giù mezza pinta in un sorso.
Il più vecchio dei tre uomini domandò se fosse davvero il caso di farmi partecipare alla riunione.
“Anche lui ha avuto problemi con la distorsione,” rispose Rob.
“Come lo sai?”
“Me l’ha detto lui.”
“C’è da fidarsi?” intervenne il più magro dei tre, quello con un riporto abbastanza precario sopra il cranio e dei baffetti sottilissimi e aguzzi.
“Lo conosco da anni questo figlio di troia, certo che c’è da fidarsi.”
I tre si interrogarono con lo sguardo.
“McLeane” disse il più vecchio porgendomi la mano.
“Foster.” quello coi baffetti aguzzi.
“Drury.” il terzo, il meno pronto a fidarsi.
Io il mio nome non lo dissi, tanto si capiva che anche loro mi avevano già visto da qualche parte.
Aggiunsi soltanto una cosa “Non sono quello che voi pensate.”
McLeane si mise a ridere e disse che allora mi trovavo nel posto giusto.
Fu Rob a spiegare la mia situazione.
Io mi limitai a correggerlo e ad aggiungere quei dettagli che mi parevano importanti.
I tre ascoltarono con estrema attenzione e annuirono spesso, specialmente in concomitanza con gli snodi narrativi meno credibili ma che, evidentemente, a loro dovevano apparire del tutto plausibili.
“Io ero il re dei condizionatori d’aria della Costa Azzurra,” disse Drury appena Rob finì di parlare “avevo una moglie di trent’anni con un fisico impressionante, una casa con piscina e una collezione di ceramiche cinesi da tutti ritenuta notevole. Adesso mi ritrovo a prendere la disoccupazione qui a Londra, ho un cane con problemi di diabete e sono vedovo. E le cose peggiorano di distorsione in distorsione. Lei invece, se ho ben capito, si ritrova in una posizione migliore di quella di partenza. Da traslocatore a musicista di successo. È un caso diverso, nuovo. Di solito la distorsione peggiora le cose.”
“Ma io non sono un musicista.”
“Lei non era un musicista,” intervenne McLeane “prima della distorsione non era un musicista e non era nemmeno sposato, fin qui possiamo anche essere tutti d’accordo. Ma ora le cose sono cambiate. La distorsione ha deciso. Almeno sino alla prossima volta.”
“La prossima volta?” domandai con un brivido netto nella voce, un attestato di paura che sembrò rendere felice il terzetto di esperti e soddisfatto l’orologiaio che, avendomi portato alla riunione, oltre a garantire per me, mi utilizzava per darsi un tono. Dio sa a che scopo.
“La prossima volta” disse McLeane “c’è sempre una seconda volta, e poi una terza e poi così all’infinito. E ogni volta le cose cambiano, le mogli, i mestieri, le case, tutto può scomparire o cambiare senza che noi si possa far altro che tentare una certa resistenza.”
“Vuol dire che mi ritroverò un’altra volta in compagnia di quella gente sventrata, e che dopo il prossimo incontro la mia vita sarà cambiata ancora una volta?”
“Temiamo di si.”
“E Rob combatterà ancora per la presa della Bastiglia?”
“Si.”
“E non c’è nulla che possiamo fare per impedirlo.”
“No. A parte opporre resistenza.”
“Voi da quant’è che lo fate?”
“Da molti anni.”
“E come fate?”
“Opponendoci alle nuove esistenze che la distorsione ci offre con la memoria di ciò che eravamo.”
“No, no, non parlavo della vostra resistenza, se è così che volete chiamarla, intendevo dire: come fate a non impazzire?”
Nessuno rispose. Avevo evidentemente toccato un tasto dolente. Ma era una domanda talmente ovvia e naturale che, per riuscire a non volerla affrontare, bisognava essere degli sprovveduti, degli illusi e anche dei codardi. Mi sentii a casa, e per la prima volta mi fidai di loro.
Tutt’ora non so dire se i tre amici di Rob avvertirono un certo grado di fiducia trapelare dalle mie parole successive, o semplicemente le afferrarono e le sfruttarono per uscire da un momento imbarazzante e tornare a discutere entro territori più familiari. In ogni modo ascoltai le le vicende degli altri due, McLeane e Foster, i loro rapporti con la distorsione.
McLeane era stato il primo a sperimentarla ed era colui che più spesso la pativa. I cambiamenti che di volta in volta la distorsione gli imponeva giocavano tutti su una gamma piuttosto ristretta: continuava a dividere la propria esistenza con gli stessi famigliari, ma di volta in volta, di distorsione in distorsione, i rapporti tra lui e i suoi consanguinei cambiavano radicalmente. Alle volte sua moglie era incredibilmente innamorata di lui ma gelosa dei due figli, per via del fatto che si trattava del frutto di un matrimonio precedente. In altri casi i figli avevano problemi di droga e la moglie incolpava McLeane e il troppo tempo speso a lavoro, lontano da casa, McLeane era un venditore porta a porta di prodotti cosmetici. Oppure la moglie era infedele e i figli lo disprezzavano per la sua debolezza nel far finta di non vedere nulla. Le combinazioni, a detta di McLeane erano praticamente infinite e comprendevano malattie, incidenti stradali, alcolismo, deviazioni sessuali, abusi infantili rinfacciati durante pranzi natalizi e violenze domestiche assortite.
Foster invece aveva problemi con la giustizia. Ogni due o tre mesi si risvegliava in prigione e immancabilmente veniva stuprato o era costretto a stuprare un nuovo arrivato. Dopo alcuni giorni immancabilmente riotteneva la libertà, sotto forma di libertà provvisoria, e tornava a dormire per strada. Questi elementi erano immutabili. Ciò che cambiava riguardava la sua cultura personale. Poteva infatti capitare che Foster fosse in grado di poter parlare in latino e compiere calcoli impressionanti, oppure citare autori Persiani del 600 alternati a liriche russe dell’avanguardia rivoluzionaria, per poi, successivamente alla distorsione successiva, riuscire malapena a citare il nome di qualche allenatore calcistico di successo o magari le liriche di una famosa canzone popolare.
Gli domandai il motivo per cui non provava a smettere di dormire per strada.
Disse che non ci pensava nemmeno a smetterla. L’unica nota piacevole del risvegliarsi in prigione consisteva nel passaggio da un ambiente freddo ad uno riscaldato, e questa piacevolezza non l’avrebbe scambiata con niente al mondo.
Poco fuori dal pub la neve aveva assunto un colore giallastro, mi voltai a guardare il vento mentre la puniva con schiaffi netti. Mi trovai a pensare che tutti, dunque, ci ritroviamo presto o tardi vittime di un destino geometricamente crudele, un destino gestito però non dal vento, ma dai risvegli.
“Lei come pensa di resistere alla distorsione?” domandò Drury.
“Mr. Drury, temo che mi vedrò costretto ad accoglierla in tutto il suo scintillante degrado.”